dal 1960 ad oggi, attraverso racconti di chi, insieme ai suoi soci l’ha pensata, creata e vissuta. Una delle più antiche e rinomate aziende di lavori subacquei .
A GANGS OF FROGMEN
Cit. dal racconto “Diecimila ore sotto i mari” di Claudio Razzini, Co-Fondatore di Barracuda Sub Genova nel 1973, tratto dal libro “Dalle scarpe di piombo alle pinne.”di Gaetano Tappino (di seguito G.T.)
Nel 1960, il capoluogo del lavoro marittimo italiano era Genova ed io li andai.
In compagnia di un mio ex commilitone che aveva ricevuto il mio stesso trattamento, ci unimmo in una società con altre tre persone che finanziarono (anche perché noi non avevamo soldi) la nascente attività: “ITALSOMM” società per lavori subacquei, iscritta alla Capitaneria di porto di Genova.
Il vecchio caro scafandro da palombaro, fu messo in disparte perché troppo dispendioso ed ingombrante, (fra l’altro io ero l’unico a saperlo usare) adottammo autorespiratori ad aria e mute di neoprene a circolazione d’acqua, con pinne, per lunghi lavori la respirazione avveniva con il narghilè.
Il nostro lavoro era principalmente rivolto al campo armatoriale, manutenzioni e riparazioni navale a nave galleggiante, i nostri tre soci si interessavano della parte commerciale e noi due ci preoccupavamo di risolvere tutti i problemi pratici subacquei.
Il lavoro oltre a Genova, veniva eseguito in tutto il territorio nazionale e se capitava anche all’estero. La differenza fra la vita militare e quella civile, e come quella fra il giorno e la notte, e ci potevamo senza false modestie considerare fra i più preparati operatori subacquei, ma ci mancava la parte professionale che per i militari e di tutt’altra natura. Riuscimmo comunque a metterci al passo, naturalmente a costo di enormi sacrifici personali, che i nostri tre soci non dimostravano di capire.
Nel campo delle manutenzioni navali, la pulizia delle carene delle navi dalla vegetazione marina, veniva eseguita tradizionalmente nei bacini di carenaggio, con costi abbastanza elevati , pertanto si concentrava nella messa in secca della nave tutti i lavori come le visite di controllo dal registro navale ed altre riparazioni. Ma da un bacino all’altro lo scafo delle navi si riempiva di vegetazione limitandone la velocità, il nostro intento era di proporre la pulizia dello scafo a nave galleggiante a periodi più frequenti, mentre eseguiva normali pratiche nelle banchine, naturalmente a costi molto inferiori, lasciando inalterato il coefficienti di consumo e velocità.
Nel bacino del Mediterraneo, i Francesi ci stavano precedendo in questa direzione, ma il loro vantaggio fu di breve durata. Misi a punto delle pulitrici subacquee, ricavate da macchine pneumatiche con spazzole rotanti di superficie, adattandole alle nostre necessità. Le attrezzature cominciarono a funzionare ed il lavoro a rendere ed eravamo l’unica azienda di lavori subacquei presente nel porto di Genova, che all’epoca fortunatamente era sempre piena di navi. La pulizia di una carena di una nave da 10.000 tonnellate, si aggira a circa 5000 metri quadrati, considerando che un operatore subacqueo munito di una pulitrice veloce possa pulire circa duecento mq per ora, bisognava impiegare una squadra di almeno quattro operatori, per ottenere una esecuzione commerciale valida. Ci necessitò di assumere altri due operatori come dipendenti.
Il lavoro non mancava, anzi non ce la facevamo ad esaudire la richiesta, ma i nostri salari restavano sempre bassi e di dividendi non se ne parlava e le spese erano astronomiche per una simile gestione, in altre parole la parte commerciale amministrativa non funzionava. A riprova di quanto sopra, a due anni dall’inizio dell’attività io ed io mio socio rassegnammo le dimissioni e la società dopo qualche tempo andò in liquidazione.
Il lavoro del palombaro
Claudio Razzini durante la vestizione prima di un ispezione, nel suo racconto traspare l’attaccamento allo scafandro del palombaro rispetto al sommozzatore. Grandi imprese sono state condotte da palombari nel campo del lavoro manuale e altrettante diventate leggendarie dai sommozzatori della marina con l’uso dell’ A.R.O (auto-respiratore- ossigeno) Ma come ammesso da Claudio nel suo racconto ma, credo che il suo amore restò solo per i l “ Palombaro “ G.T.
Una foto del gruppo di Claudio in assetto da incursori, equipaggiati con i famigerati auto-respiratori ad ossigeno, denominati G.50, la produzione di questo tipo di apparecchio risaliva al 1940 circa.
Lanterna di genova 1960.
Squadra di palombari del porto di genova.
Primi lavori nel porto di Genova
Si possono notare gli erogatori monostadio collegati alla manichetta del compressore che forniva l’ aria.
Una foto durante una pausa dal lavoro, si possono notare le attrezzature dell’epoca, le pinne destre e sinistre, le mute erano di neoprene alquanto rigido e freddo, per indossarle necessitava che le maniche fossero in più pezzi, la “ Pinocchio” maschera smontabile in modo da poter sostituire il vetro in caso di rottura o usura della gomma.
Una foto durante un lavoro di pulizia di carena, ai piedi le rudimentali spazzole pneumatiche che, realizzate da Claudio (il secondo da sinistra ed il suo inseparabile amico Franco ultimo a destra), permettevano la pulizia dello scafo
L’accordo con l’ente Bacini fu definito a fine del 1976 anno
Una foto di un amico mentre sta utilizzando la macchina per la pulizia della carena, si può notare la differenza a metà della macchina fra lo sporco ed il pulito, ed al centro la grossa elica per l’aderenza allo scafo e che butta fuori lo sporco rimosso.
Uno scorcio del Porto di genova del 1964, il piccolo rimorchiatore maestrale.
In due anni di duro lavoro avevamo acquisito una discreta esperienza, umana e professionale, ma principalmente avevamo affilato gli artigli della volontà, decisi a riuscire ad ogni costo. Assieme al mio socio, costituimmo una nuova società di fatto, perché i fondi non abbondavano di certo, con quei pochi liquidi che riuscimmo a racimolare, acquistammo una barca a motore ed il necessario per immergerci.
“Ricordo perfettamente la barca, un gozzo di mt 9 con il proseguo della prua girata all’indietro detta “ pernaccia alla genovese” si chiamava “San Pietro” aveva un motore diesel molto vecchio ma affidabile, al centro barca era installato un motocompressore di bassa pressione che veniva utilizzato per il narghilè, era anche molto stabile, ricordo di aver passato parecchio ore su quel gozzo quando si facevano lavori di assistenza alle nav. Ed è ancora vivo in me il freddo patito a bordo quando in inverno soffiava la tramontana.” G.Tappino
La nuova società si chiamava “BARRACUDA SUB” nome scelto per esprimere il nostro stato d’animo; agguerriti e pronti a tutto. Sapevamo che la ITALSOMM pur se in liquidazione era oberata da insistenti richieste di lavoro e ci offrimmo di eseguire quelli che non riuscivano a soddisfare. I compensi in parte in soldi ed in parte attrezzature a noi molto utili. Riuscimmo così ad evitare spese superflue che nella loro gestione erano state una delle cause del fallimento. Gli inizi comunque furono durissimi, eravamo in espansione per raggiungere il numero di operatori necessari ad eseguire i carenaggi, che intuivo essere il nostro futuro, non potendo assumere dipendenti, allargammo la società ad altri due nuovi soci, che si impegnavano con una parte dei proventi del loro lavoro, a corrispondere le quote della proprietà. Si era nel settembre del 1972, quando fummo interpellati dalla direzione dell’azienda che gestiva tutti gli acquedotti allora A.M.G.A che era anche titolare della diga che da vita al lago artificiale del Brugneto un piccolo paesino a pochi kilometri sulle alture di Genova , riserva idrica della città.
Il problema che affliggeva l’ingegnere responsabile autore e gestore dell’impianto, era la totale otturazione della terza bocca di emungimento della diga quella più bassa (dette anche bocche di portata) Il livello del lago, era in quel momento, appena sopra la seconda bocca, abbassandosi sotto questa e non potendo usare la terza bocca, ci sarebbe stato il blocco del rifornimento idrico alla città. Ci recammo sul posto per un’immersione di controllo e constatazione della situazione, il lago del Brugneto sito a 750 metri sopra il livello del mare , aveva il livello dell’acqua fra la prima e seconda bocca di emungimento, la terza quindi si trovava alla profondità di 34 metri.
Per la visita subacquea ci eravamo preparati io ed il mio socio Franco per intenderci (due paia di occhi vedono più di uno) decisamente non era il nostro caso, come avemmo modo di constatare, oltre i 15 metri di profondità regnava l’oscurità più assoluta, essendo muniti di flash, proseguimmo lungo la rampa di cemento, che scendeva con una pendenza di circa 45°, passammo davanti alla griglia della seconda bocca (chiusa per l’occasione) e proseguimmo verso il basso. Percorsi una decina di metri ci accorgemmo che la bocca era completamente ricoperta da una frana caduta probabilmente dal fianco della diga. Valutammo di trovarci di fronte ad una massa di circa 150 metri cubi di materiale da rimuovere, pensammo che l’unica soluzione era quella di sfruttare la pendenza, spingendo a valle il materiale sul fondo liscio della parete della diga con un getto d’acqua a forte pressione. Anche l’ingegnere fu del nostro stesso parere, ora si trattava d’organizzare il lavoro, in modo d’ottenere la massima resa giornaliera in base al numero degli operatori che avremmo potuto impiegare giornalmente in funzione del tempo scandito dai tempi ristrettivi di decompressione. In considerazione di quanto sopra, della natura urgente del lavoro e delle precarie condizioni finanziarie dell’A.M.G.A ci fu assegnato l’incarico in “economia” un importo giornaliero per operatore impiegato, ad avanzamento lavori. Decidemmo di impiegare l’intera forza della società più un amico che ci avrebbe dato una mano, l’amico era un palombaro come me, quindi noi due a turno avremmo usato a turno lo scafandro, mentre gli altri tre si sarebbero immersi con mute a circolazione d’acqua e narghilè. Vicino alla centrale piazzammo un motocompressore stradale( così denominato per la sua ingombrante mole ma con un’alta resa di fornitura di volume d’aria a bassa pressione) munito di filtro per la respirazione, la manichetta con l’acqua a pressione ci veniva fornita dalla centrale con una pressione di kg 8.
Sulla verticale del punto di inizio lavoro, ormeggiammo una zattera di mt 3 x 3 che ci permetteva di scendere direttamente sulla zona di scavo, passando abbastanza lontani dalla seconda bocca in funzione per evitarne il risucchio, lungo il cavo d’ormeggio erano assicurate le manichette dell’aria e dell’acqua ed inoltre i traversini per le tappe di decompressione. Data l’assoluta mancanza di visibilità, fu necessario adottare per tutti un’unica posizione di lavoro, raggiunto il fondo, l’operatore si stendeva supino sul fondo della rampa, testa a monte e in piedi sui detriti, a gambe divaricate, con il getto d’acqua fra le gambe spingeva a valle il materiale che i piedi sentivano sparire, si procedeva quindi allo spostamento a valle del materiale.
Ogni giorno, con qualsiasi tempo , facevamo le nostre immersioni, invertendo l’ordine cronologico di ogni turno, ai primi di ottobre l’acqua era già molto fredda, per noi con lo scafandro erano le mani a subire il freddo, ma per gli altri era ben più dura ma purtroppo allora non esistevano ancora le mute stagne.
Alloggiavamo in un albergo in un vicino paese Torriglia , si iniziava alle otto del mattino con una tirata unica fino alle 14.00 per poi andare in albergo per il pranzo ed il riposo, la sera partite a carte con contorno di sbadigli a non finire. Trascorsero così i mesi di ottobre, novembre e dicembre, la frana diminuiva con una lentezza esasperante, il freddo aumentava, il direttore della diga scalpitava, pur rendendo sin conto che noi facevamo quanto era nelle nostre possibilità ed oltre, non avevamo osservato un giorno di riposo dall’inizio.
Finche un bel giorno o meglio un brutto giorno, era di primo turno l’amico palombaro, terminato il lavoro risalì alla decompressione e dopo la seconda tappa arrivò a quella dei mt 3 ma non si fermo, decise di venire a galla per un bisogno di carattere liquido (dato il freddo) quindi ritornò alla tappa dei mt 3 e finì la decompressione. Io facevo il terzo turno, quando risalii dalla mia decompressione, l’amico che nel frattempo faceva la guida, mi disse di accusare un dolore alla spalla, ma poi pensò si trattasse dei soliti reumatismi e non se ne parlò più. Rientrando in albergo, la strada risaliva il monte sino a mt 1000 sul livello del mare, durante questo percorso, l’amico si lamentò per un sensibile aumento del dolore il che mi fece presumere trattasi di embolia gassosa.
Dall’albergo telefonai all’ospedale San Martino di Genova al reparto di “medicina del lavoro” munito di camera iperbarica, allertandoli. Tutti e cinque come membri di una sola famiglia ci precipitammo in ospedale, dove il nostro amico accompagnato da Franco, furono introdotti nella grande camera iperbarica e ricompressi alla quota di 34 mt quota dove lavoravamo, erano le 18.00, mentre davamo spiegazioni del nostro lavoro, altri si accingevano a procurare qualcosa da mangiare le decompressione finì alle 23.00 con esito positivo, il temporaneo ricovero si trasformò in un allegro festino, bisogna dire che i medici del centro iperbarico erano nostre vecchie conoscenze ed erano stati nostri graditi ospiti per documentarsi sui lavori in quota. Il nostro rientro in albergo fu salutato da una abbondante nevicata ed un sottile strato di ghiaccio ricopriva la superficie del lago.
Alla fine della prima decade di Dicembre scoprimmo la griglia della terza bocca, griglia che fu portata in superficie per la manutenzione e pio riposizionata al suo posto, Finalmente il giorno della prova finale, che avvenne con pieno successo, con dichiarazione del direttore “ lavoro eseguito a piena regola d’arte” e ci riconobbero anche un premio in danaro. Lo stesso lavoro lo ripetemmo nel 1973 e nel 1983.
Da quanto finora descritto, chi legge si darà reso conto che praticamente conducevo la ditta sia dal punto di vista commerciale che tecnico, naturalmente il tutto avveniva con l’approvazione dei miei soci, diciamo che essendo il più anziano avevo l’onore e l’onere di tracciare le direttive. Gli ultimi due lavori avevano contribuito a rendere un po’ più tranquilla la situazione generale, per quanto la prolungata assenza dall’ambito portuale richiedeva un accurato esame delle esigenze attuali.
I bacini di carenaggio del porto di Genova, erano oberati di lavoro e le navi in attesa di entrare attendevano in rada il loro turno. Sapevo che era necessario affrontare una serie di tempi morti per determinati lavori da fare in bacino prolungando la sosta ed aumentando i costi, , l’unica soluzione era ridurre i tempi; forte di questo argomento mi recai a parlare con l’allora responsabile dell’ufficio acquisti dell’O.A.R.N ( officine, Allestimento, riparazioni navali) la più importante in porto, dove si concentravano quasi tutti i lavori.
All’incontro esprimendo il mio concetto di risparmiare tempo, suggerii di usare la nostra opera durante l’attesa delle navi per l’ingresso in bacino, ad esempio la rimozione di timoni, la sostituzione degli zinchi, la sostituzione delle baderne dell’asse dell’elica, ed altri come la sostituzione del solcometro, ebbe così inizio la collaborazione delle due aziende (Davide e Golia)
Nel frattempo la direzione del porto Petroli, di Genova Multedo ci segnalò la loro necessità di disporre di un sommozzatore durante le operazioni di attracco delle petroliere all’isola petrolifera, (una piattaforma che aveva la funzione di far scaricare le grosse petroliere che non potevano entrare in poto attraverso una condotta subacquea).
Il nostro incarico era quello di agganciare alla gru della petroliera le manichette galleggianti per sollevarle a bordo ed collegarle alle flange in coperta per l’inizio dello scarico, con disponibilità ad ogni orario giorno o notte che sia cioè quando la nave arrivava, salvo eventuali sospensioni per le condizioni meteo marine avverse, nonostante l’impegno di certo non avremmo mai rifiutato una sicuro lavoro di continuità.
… pioveva sul bagnato …
Un bel giorno venne da il Comandate Repetto, uno dei comandanti di manovra dell’Ente Bacini di Genova, a nome del Comandante Cupido, direttore dell’Ente, ci chiedeva di fornirgli i nominativi di sommozzatori in grado di sostituire i Palombari dipendenti dell’Ente ormai più che pensionabili o quanto meno se la nostra organizzazione fosse in grado prepararne alcuni adatti a quel tipo di attività, non credete che sia il caso di pensare che “ pioveva sul bagnato”La mia risposta non ebbe bisogno di ripensamenti, fu pronta ed immediata, offrendo la nostra collaborazione e renderci disponibili fornendo l’assistenza tecnica e numerica per sostituire i palombari, eseguendo con loro un periodo di addestramento ed con una necessaria copertura assicurativa per eventuali danni recati alla nave, con un contratto annuale rinnovabile.Il comandate Reppetto mi assicurò che in pochi giorni mi avrebbe dato una risposta dopo aver parlato con la direzione.
Nel giro di pochi giorno arrivò la chiamata del Comandante Cupido per la stesura del contratto.Per noi un grosso impegno elettrizzante ma di grande responsabilità sia dal punto di vista tecnico che dell’impiego di personale subacqueo e non che dovevamo assumere e a volte comportava alcuni rischi!Eravamo al settimo cielo un lavoro continuativo e a casa che ci avrebbe garantito la sopravvivenza di base, con il più importante Ente portuale, per non parlare delle circa cento interventi che mensilmente eseguivamo nei cinque bacini fissi ed uno galleggiante.
Ormai la Barracuda Sub era arrivata all’apice delle conoscenze del lavoro navale subacqueo, ormai non c’era officina o agenzia marittima che non si rivolgesse alla Barracuda per risolvere i problemi che, puntualmente venivano risolti. Intanto le navi crescevano di dimensione specialmente le petroliere che a causa della chiusura del Canale di Suez, dovendo affrontare un lungo viaggio per raggiungere il Golfo Persico per caricare il greggio dovevano avere una grossa capienza per risparmiare sui costi di navigazione.
Questi giganti del mare con i loro mt 300 di lunghezza, con mt 50 di larghezza e con mt 24 di scafo immerso, presentavano superfici dai 15.000 ai 25.000 mq da sottoporre al trattamento della pulizia della carena.
Un lavoro letteralmente pazzesco a pensare di eseguirlo con le nostre spazzole che avevano un diametro di cm 25 circa, considerando che con una decina di ore di quattro operatori riuscivamo a pulire una carena di 4.000 mq .
Il problema sembrava insormontabile, ma quando ci sono i mezzi e la volontà tutto diventa semplice.
Il sig. Guanito Barbagelata, grosso imprenditore nel campo del rifornimento navale generico, molto informato sui problemi armatoriali internazionali, e che si serviva della nostra struttura per le assistenze alle loro società di navigazione loro clienti, ci convocò nel suo ufficio. Presente all’incontro il figlio che si accingeva a prendere le redini dell’azienda, ci disse di aver acquistato in Irlanda una macchina oleo-dinamica per la pulizia subacquea delle carene, che intendeva dar vita ad una specie di stazione di servizio in Italia, sullo stile di altre località nel mondo che avevano già approntato io sistema equipaggiati con le stesse macchine.
Va subito detto che queste macchine erano mosse da un grosso moto-generatore erogante una considerevole corrente attraverso un ombelicale, le macchine avevano un diametro di due metri con al centro una grossa elica che aveva la funzione di fare aderenza allo scafo, tre grosse spazzole in acciaio provvedevano a portare via le vegetazione dello scafo ed tre ruote davano l’avanzamento alla macchina che poteva coprire una distanza di mt 1.500 per ora. La condotta della pulitrice sulle fiancate, avveniva dalla superficie attraverso l’ombelicale, mentre per le parto stellari (parti tondeggianti o convesse) della nave di prua e di poppa ed il fondo veniva con il sommozzatore manualmente.
La proposta del Sig Barbagelata era in sintesi questa: la sua organizzazione avrebbe svolto il grosso del lavoro di acquisizione del lavoro con i suoi contatti diretti, e noi avremmo dovuto fare le parti in manuale dove la macchina necessitava l’intervento dei sommozzatori e quant’altro a loro non era possibile fare in automatico.
La ditta fornitrice del complesso apparato, garantiva la fornitura dei pezzi di rispetto e di consumo ed eventuali avarie della macchina con i loro tecnici e la garanzie di essere l’unica sul territorio italiano.
L’accordo venne formulato e sottoscritto da un contratto che garantiva ad entrambi un’inequivocabile reciprocità delle competenze tecniche ed economiche.
Anche questo accordo ci portò un notevole aumento di lavoro portandoci ad operare in ogni porto italiano dove le navi ci chiamavano per la pulizia da eseguirsi durante le operazioni di discarica.
Ormai questa attività è stata messa al bando perché con le nuove normative sull’ambiente hanno vietato la rimozione dello sporco a nave galleggiante, lo sporco è composta da organismi marini, ma nella rimozione insieme agli organismi naturali, viene rimossa anche la parte superficiale delle pittura antivegetativa ed è una pittura che contiene veleni con carichi di rame e piombo alquanto nocivi per l’ambiente
Purtroppo questa è l’ultima pagina del racconto di Claudio il male lo aveva debilitato ed non riuscì più a proseguire il suo racconto di vita, che mi onoro di aver trascritto per tutti gli amici del mondo sommerso. Cit. G.Tappino